Agenda 2000, Lisbona 2010, Europa 2020.
E ancora: cicli di programmazione 2000-2006, 2007-2013, 2014-2020.
Cosa sono queste cadenze? Sono il risultato di una visione della realtà scandita da obiettivi di lungo termine cui si vuole dare una linea di arrivo, una data di raggiungimento. Funziona?
Fissare scadenze ha sicuramente il vantaggio di offrire un orizzonte chiaro e condivisibile delle scelte fondamentali che guidano le politiche comunitarie. Ma sul piano della gestione, qualche dubbio permane.
L'esercizio della costruzione di strategie di policy contribuisce alle trasformazioni fondamentali della società. Porre degli obiettivi ambiziosi forma delle aspettative che si radicano nella coscienza delle persone e cambia la percezione di quello che è giusto e quello che è sbagliato pretendere dalla politica. Le strategie, ricche di obiettivi ambiziosi, e la loro divulgazione, oserei dire che cambiano la coscienza dei popoli, oltre che indirizzare l'azione delle amministrazioni. Perché sapere quali obiettivi sono a fondamento delle politiche determina una visione nei cittadini della società che sarebbe desiderabile avere. Però. Però è anche uno strumento di governo calato nel continuum spazio-temporale. Se la strategia si trasforma in un quadro di riferimento che guida l'azione, ma che subisce verifiche, quando va bene, soltanto una volta all'anno, c'è il forte rischio che la realtà si allontani dal quadro di riferimento iniziale, e la strategia diventi presto obsoleta. E una strategia obsoleta è peggio che non avere strategie, perché vincola all'azione verso obiettivi ormai sbagliati. Il bilancio comunitario che finanzia i fondi strutturali segue una logica settennale. Il settennio non è un dato di natura, è una convenzione scelta per offrire un respiro pluriennale all'attuazione di opere che hanno necessità di tempi lunghi per maturare. Opere infrastrutturali, azioni di trasformazione dei contesti, interventi di stimolo e di attivazione delle forze migliori della società. E sogni. Sogni perché alcune attività sono frutto di ambizioni enormi, si propongono trasformazioni profonde della società e dell'economia per un progresso radicale e duraturo. I grandi programmi sono sogni perché le grandi sfide sono frutto di visioni epiche della realtà che solo grandi ideali possono generare e sperare di realizzare. Ma sono sogni anche perché ci sono velleità recondite nell'animo umano che se non dominate a dovere si impongono contro ogni senso di realtà. I programmi si propongono di intervenire su tutti gli ambiti della società, ogni amministratore, ogni assessore, ogni ministro, vuole il proprio spazio di visibilità, il proprio plafond con cui misurarsi nell'esercizio di realizzare il futuro. Non è sognare il problema; sognare, anzi, è l'opportunità che si dà l'umanità di progettare un mondo migliore. Sognare è la grande forza che ha mosso i grandi innovatori. Non si realizzano grandi ideali se non si è capaci di sognare. Però. Però chi governa e amministra ha una responsabilità nel condurre i sogni verso una realizzazione concreta e non può commettere errori. Non può commettere errori nell'attività più difficile e rischiosa che si possa immaginare, la realizzazione di sogni. Questa infallibilità non è pretesa neanche ai capitani di industria o ai capi di Governo. Anche gli eserciti mettono in conto la sconfitta nel disegno delle tattiche per le loro battaglie. Ma la guerra deve essere vinta. La sconfitta non è auspicabile, ma è un dato di realtà con cui confrontarsi come ogni altro. Non è fallire il problema, ma non imparare dai proprio fallimenti. Vincere è facile, difficile è uscire sconfitti e apprendere dalla sconfitta, capire come non ripetere gli stessi errori, e trovare forza e coraggio di ricominciare rinforzati dalla maggiore esperienza. Tra l'essere sognatori e l'essere velleitari il confine è labile, nascondere questo fatto è puerile. Dunque, Agenda 2000, Strategia di Lisbona, Europa 2020. Grandi strategie o meravigliose illusioni? C'è un poco dell'uno e un poco dell'altro. Quadro comunitario di sostegno 2000-2006, Quadro strategico nazionale 2007-2013... sono veramente falliti? Certamente, le criticità che sono state incontrate erano state sottovalutate, alcuni nodi strutturali del percorso di formazione e di attuazione delle strategie forse non sono stati analizzati a sufficienza. Perché persiste la tendenza al millenarismo, ovvero la tendenza di attribuire ad alcune scadenze un valore simbolico, quasi mistico. Una visione del reale dominata dall'idea che esistano momenti catartici nei quali l'umanità vive una svolta. La scoperta dell'America, la caduta del muro di Berlino, la diffusione dei PC, l'entrata nell'Euro, sono eventi che hanno cambiato la società nella quale viviamo. Ha un senso, anche quando parliamo di sviluppo e di coesione cercare di portare la società verso un punto di svolta, un punto oltre il quale gli eventi cambiano il loro corso e progrediscono da soli verso una società migliore, più sviluppata, equa ed evoluta. Si spera sempre di attraversare una fase mitica oltre la quale il progresso si sostiene da sé, senza più bisogno di interventi eroici di sostegno e di stimolo. Però. Però quanti sono gli eroi? Dove stanno i portatori di una verità nuova che tutti illumina e che tutti coinvolge verso la società del domani che tutti auspicano? Gli eventi di portata storica sono frutto di circostanze imprevedibili e uniche. Io non credo si pianifichino a tavolino le grandi svolte storiche. Nessuno lo crede. Si cerca di creare delle opportunità perché il progresso arrivi, è forse l'ambizione più importante che si possa cercare di realizzare. Ha senso programmare il futuro per una durata di sette anni? Avrebbe senso in una partita di Basket cercare di centrare il canestro tirando solo dalla lunga distanza, da fondo campo? In realtà le strategie di una squadra che compete hanno lo scopo di portare i giocatori più vicini possibili all'obiettivo prima di lanciare il tiro, ed anche quando le strategie di gioco sono perfette e i giocatori sono dei fuoriclasse, c'è la casualità che gioca la sua parte. Il lavoro duro e lo studio hanno lo scopo di rendere la sconfitta meno probabile, eppure la sconfitta fa parte degli eventi da considerare. Cosa ci impedisce di avere una programmazione "a scorrimento", sette anni di programmazione, che ogni anno analizza l'anno trascorso, ricalibra gli obiettivi e aggiunge un altro anno di strategia, per avere sempre un orizzonte di sette anni di piano, articolato in programmi con scadenze differenziate coerentemente alle materie oggetto di intervento. ... tornare a considerare il tempo un continuum. Le regole del bilancio comunitario e dei regolamenti impongono di considerare i programmai dei blocchi che si decidono nei loro aspetti fondamentali soltanto una volta ogni sette anni. Salvo riprogrammarli come attività straordinaria e derogatoria. E' evidente che la programmazione strategica abbia bisogno di un quotidiano esercizio di affinamento. La realtà è mutevole, nuove variabili e mutamenti di contest devono essere considerati tutti i giorni, il monitoraggio e la valutazione offrono informazioni quotidiane che dovrebbero essere integrate nei modelli in tempi molto ravvicinati. La riprogrammazione, insomma, è un'attività connaturata alla pianificazione strategica e non andrebbe trattata come un evento straordinario. L'idea di ciclo di programmazione non è ancorata ad un dato di realtà, è il frutto di un ragionamento che in maniera approssimativa immagina che sette anni sia un tempo congruo per attuare grandi opere e sviluppare processi di grande rinnovamento. Opere e processo che tuttavia è ovvio, a me pare ovvio, che non è possibile partano tutte e si concludano tutte insieme. Forse la realtà si dovrebbe adattare ai tempi imposti dalle convenzioni che ci siamo dati? Forse si spera che i responsabili della pianificazione diventino dei demiurghi cui tutti offrono collaborazione, ai quali si piegano tutte le volontà contrastanti. La realtà ha i suoi tempi che non si adattano alle esigenze dei programmi. La società ha le sue forze indipendenti che non si piegano alla volontà di un pianificatore. Non è una società deterministica, retta da un principio totalizzante che tutto ricompone ad unità, che rende tutto prevedibile a priori. E meno male, aggingo. E' giusto dare impulso all'accelerazione dell'attuazione delle opere; è giustissimo sanzionare i ritardi delle amministrazioni e delle imprese che beneficiano di contributi pubblici. Ma l'esperienza e la ragione mi suggeriscono che dagli amministratori si può pretendere soltanto che accelerino sulle attività che sono sotto la loro diretta responsabilità. Oltre le amministrazioni c'è un mondo che non è governato dalle politiche di coesione. Tempi della politica, inefficienza della scuola, della giustizia e dei servizi dell'impiego; costo dell'energia e dei servizi di supporto alle aziende, criminalità organizzata, complessità burocratiche. C'è tutto un sistema da governare e riportare ad efficienza, con il quale le politiche di coesione si confrontano quotidianamente. Andiamoci piano ad attribuire all'attività di valutazione ex ante, in itinere ed ex post, quella valenza miracolosa che alcuni propagandano. Sostenere che una metodologia è necessaria non significa che essa sia risolutiva. Perché qualcuno dovrebbe sconvolgersi dal mancato raggiungimento di obiettivi che per loro natura sono critici, ambiziosi e sfidanti? Forse non si dovrebbe avere il coraggio di avere delle ambizioni? Perseguire grandi ideali senza essere velleitari, è questa la sfida delle sfide. Raccogliere consenso e smuovere i mille attori che possono esercitare un impatto concreto sul contesto e concorrere al miglioramento della società. Ma non è il caso di aspettarsi un popolo di santi o di eroi. Fare i conti con l'umanità di politici, imprenditori ed amministratori, inserire i dati di realtà nei modelli macro e micro economici e formulare scenari alternativi, è una maturazione necessaria delle attività di valutazione ex ante. Si dovrebbe ragionare su tanti scenari alternativi, perché la realtà è animata da tante determinanti che esercitano forze contrastanti tra loro e rendono mutevole e incerto il contesto nel quale le politiche di coesione sono formulate ed attuate. Valutare scenari alternativi; perché come sarebbe il nostro contesto operativo se una svolta culturale riducesse i rischi di irregolarità? Cambierebbe lo scenario. E se una crisi finanziaria attraversasse l'economia? Abbiamo formulato un altro scenario, che in realtà si è già verificato nel 2008, e cui i programmi non hanno saputo dare risposta direttamente. Certo, sono state formulate delle riprogrammazioni, ma solo a partire dal 2011 e con strumenti derogatori ed eccezionali. Avere visioni alternative della realtà cui accompagnare altrettante visioni alternative dei possibili percorsi di sviluppo è una lezione che avremmo dovuto imparare. Come dovrebbe essere ormai chiaro che una strategia non durerà mai sette anni. Men che meno se le strategie errano nel centrare tutti i dati di realtà rilevanti per i nostri territori; men che meno se le strategie che non guardano ai possibili scenari alternativi che sono plausibili accanto a quello attuale. Una strategia che abbia chances si farcela è una strategia che si rimette continuamente in discussione. A mio avviso, le visioni millenariste ostacolano questo processo di crescita e affinamento delle strategie e perché propongono ipotesi di sviluppo che non si rinnovano nel tempo, che scontano l'intreccio di pluralità di obiettivi impliciti indipendenti dalle policy, e pertanto scadono nella velleità. Le politiche di sviluppo scontano vincoli che erano anacronistici già quando sono stati formulati, presuppongono condizioni di contesto che non esistono in concreto e allontanano il tracciato dagli obiettivi realisticamente raggiungibili che sarebbero alla portata dei Governi se solo si trasformasse il processo di formulazione delle strategie in un processo continuo ancorato alla realtà quotidiana, all'evoluzione del territorio e della società, al momento storico e alle condizioni dell'economia. Imparare di nuovo a camminare prima di ambire a vincere le olimpiadi. Se le politiche di bilancio comunitario per le politiche di coesione fossero rielaborate di anno in anno, se i programmi scorressero, e da 2014-2020 diventassero 2015-2021, 2016-2022 e così via, di anno in anno, con la convinzione di dover apprendere continuamente dall'evolversi della società e dell'economia i nuovi e migliori strumenti per condurre i territori verso un sentiero di sviluppo, anch'esso continuo e non intermittente con cicli innaturali di sette anni; se si riformasse questo modo di ragionare, forse si farebbe pace con una realtà che è differente da come è raffigurata dalle politiche di Bruxelles. Non migliore o peggiore, semplicemente differente. Forse di comincerebbero a cogliere le opportunità concrete di sviluppo che si presentano nell'azione quotidiana delle amministrazioni, troppo impegnate invece a districarsi tra le complicazioni procedurali e burocratiche di un processo di attuazione assolutamente tortuoso, che invece di essere riformato in meglio è stato addirittura peggiorato con gli ultimi Regolamenti comunitari.
venerdì 30 maggio 2014
Il millenarismo dell'Unione Europea
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